Welela era una ragazza prima di morire

di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi

Lampedusa, Agrigento (NEV), 3 giugno 2015 – Storie di una frontiera che cancella vite. Storie che per una serie di casualità vengono alla luce e ci consegnano un’umanità che è ben poca cosa rispetto alla “banalità del male” che si nasconde dietro procedure, burocrazia, quotidiana normalità. 

La storia che vi proponiamo è quella di una ragazza che prima di morire si chiamava Welela, la sua storia è fatta di tanti tasselli, persi, ricostruiti e ora raccontati. Partiamo da una lampedusana, una persona che come tante altre sull’isola è preoccupata che le immagini distorte che i media propongono di questo luogo facciano male a Lampedusa e alla sua stagione estiva. Ma questa è anche una persona ancora capace di indignarsi e reagire davanti a un’umanità espropriata dei suoi diritti fondamentali. Possiamo ricostruire e raccontare questa storia solo perché – ci dice la donna lampedusana che vuole restare anonima e che chiameremo Sara – “abbiamo delle persone della Guardia di Finanza, del Comune di Lampedusa, della Capitaneria di Porto e medici che sono ancora sensibili”. Poi c’è un’altra donna lampedusana, anche lei ancora sensibile, che ha offerto la sua tomba di famiglia per permettere ad una giovane ragazza eritrea, arrivata senza vita dal mare, di non essere considerata soltanto un altro numero. Questa storia parla anche di un rito laico, fatto da persone comuni, per rompere la spersonalizzazione di chi muore in mare. È sconvolgente però constatare che, anche se c’è un’umanità che da sola cerca di resistere alla banalità del male insita nel dispositivo della frontiera, se le persone in questione si fossero attenute alle procedure previste, la storia di Welela sarebbe stata persa per sempre e suo fratello non avrebbe mai avuto una tomba per piangerla.

Questa storia la raccontiamo grazie alla disponibilità di Sara che è riuscita, non con poche difficoltà, a ritrovare una ragazza eritrea di 20 anni che è stata sepolta nel cimitero di Lampedusa il mese scorso. Il tutto nasce da una telefonata ricevuta da Palermo da un ragazzo eritreo che aveva saputo della morte della sorella, arrivata su un barcone, e della difficoltà di trovare il luogo della sua sepoltura. Si viene quindi a sapere che il 16 aprile c’era stato un drammatico salvataggio in mare, che erano state recuperate cento persone, delle quali ventisei ustionate gravemente. Con loro viaggiava anche la giovane, senza vita. Le ustioni non erano quelle tipiche provocate dal mix di carburante e acqua di mare che brucia la pelle, ma erano lesioni molto più estese, presenti in tutto il corpo. Si scoprirà poi che queste persone erano partite dalla Libia dopo un’esplosione di una bombola a gas avvenuta nel luogo dove erano tenute e si verrà a sapere che per giorni, nonostante le gravi ferite, erano state lasciate in agonia e senza cure per poi essere imbarcate in mare.ì

Ritrovare il corpo della giovane eritrea non è stato facile. Le prime notizie davano il suo seppellimento ad Agrigento, informazione dovuta ad un equivoco dato che nei giorni precedenti altri ragazzi erano morti per annegamento ed erano stati sepolti senza nome. Grazie alla Guardia Costiera di Lampedusa e alla Guardia di Finanza, si è poi venuti a conoscenza che la ragazza era stata identificata come Welela dai suoi stessi compagni di viaggio. Sul rapporto della Guardia di Finanza veniva riportato tale fatto ma l’ordine del Magistrato non faceva riferimento al nome di battesimo della ragazza. Il ritrovamento di Welela è, quindi, frutto di una casualità. Saputo che il corpo era a Lampedusa si è poi scoperto che la ragazza era stata sepolta al cimitero in una tomba offerta da una donna dell’isola, che ha dato disposizione di seppellirla nel loculo della propria famiglia. Tra l’altro, proprio vicino ad un secondo loculo offerto ad un ragazzo romeno venuto dal nord, talmente povero e solo da non potersi permettere una tomba. Avendo saputo che Welela era stata sepolta senza nessun rito o saluto, un piccolo gruppo di persone ha organizzato una breve e semplice cerimonia laica per ricordare il valore umano di ogni persona, a prescindere da questa vicenda specifica. Anche Mediterranean Hope ha partecipato a questo momento, con il coro multietnico di Migrantes Messina, e insieme abbiamo cantato, condiviso lacrime e silenzi, filmando l’avvenimento per poterlo mandare al fratello di Welela, impossibilitato a raggiungerci. A questa iniziativa la stampa non è stata chiamata. Certi della genuinità dei nostri gesti abbiamo deciso di non farlo per una questione di rispetto alla famiglia di Welela. Facciamo nostre, quindi, le parole di Sara quando ci dice che “c’è in atto un’idea di cancellazione culturale di queste vite. Se lo scopo è salvare le persone non si dovrebbe salvarle dal naufragio, ma prima che queste partano. Vanno salvate dalle dittature e dalle prigioni libiche. L’idea della cancellazione – continua Sara – è una strategia culturale che dà il via libera a provvedimenti politici che spesso non hanno senso. Se lo scopo è salvare le persone bisognerebbe salvarle dalle dittature e non nell’ultimo pezzettino del viaggio, magari proponendo di bombardare i barconi”.

Queste scelte mettono in evidenza come la spersonalizzazione degli esseri umani, la creazione di enormi centri profughi, l’ignorare il progetto di vita di queste persone sia ormai una strategia per cancellare gli interrogativi che i migranti pongono ai nostri confini. Continuano ad essere viste, e trattate, come un problema, senza considerare le risorse che potrebbero offrire alla nostra comunità. Sara ci dice che ci sono due modi per imparare le cose, l’esperienza diretta e la cultura. “Se una cosa non viene vissuta non puoi apprenderla. Noi lampedusani abbiamo una nostra particolarità, non è che siamo buoni ma siamo costretti a vivere costantemente un’esperienza diretta. Un’esperienza – continua la donna – che poteva essere trasmessa parlando con i media, cosa che abbiamo provato a fare. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Non è un problema solo della politica italiana, è anche un problema dell’opinione pubblica che queste storie non le vuole sentire. Io li capisco, perché il carico delle responsabilità che ci mettono addosso è enorme. Ma non vi illudete, questo problema, prima o poi, toccherà tutti e prima impareremo a conoscere e capire la storia di queste persone, prima inizieremo a costruire un mondo migliore”.

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